giovedì 28 febbraio 2013

DELLA CRUDELTA' UMANA II: I MATTATOI CON LE PARETI DI VETRO


 
SE I MATTATOI AVESSERO LE PARETI DI VETRO, TUTTI SAREBBERO VEGETARIANI
 Sir James Paul McCartney

di Camilla Lattanzi e Marco Reggio uscito su ANTISPECISMO.net

Navigando sul web alla ricerca di documentazione su allevamenti e macelli, ci siamo imbattuti in una serie d’immagini impressionanti. Per gli animalisti è cosa frequente, del resto.

In questo caso però non si tratta di qualche investigazione che mostra agli ignari consumatori la realtà degli allevamenti, né di qualche pubblicità dell’industria della carne. Si tratta del catalogo di un’azienda che illustra la sua collezione di indumenti da lavoro. Insomma, un testo commerciale, ma che di per sé non ha nulla a che fare con lo sfruttamento animale. Fra i tanti lavori – si sa – c’è quello di chi mette fine alle vite generalmente brevi degli animali, o di chi si cura di smembrarne i corpi per metterli “sul mercato” sotto forma di cibo. Quello del macellaio è in un certo senso un lavoro come gli altri, e la “normalità” di questa professione, in una società che ritiene giusto basare la propria alimentazione - e i propri consumi in genere - sulla sofferenza di altri viventi (umani o non umani), viene ribadita costantemente in ogni ambito della vita sociale.


Le immagini di questo catalogo, però, ci parlano di una ipernormalità, di una normalità ostentata. Nello stesso fascicolo, accanto alle tute da lavoro per attività pericolose (gettarsi fra le fiamme, lavorare sotto terra o sospesi in aria), reclamizzate con tanta enfasi, con tanto ricorso alla figura dell’eroe, del maschio temerario, muscoloso e spavaldo, troviamo gli accessori per chi lavora nei mattatoi, pubblicizzati con la stessa enfasi e la stessa iconografia: ma in che cosa un macellaio può ricordare un pompiere? In cosa consisterebbe il suo eroismo? Quali pericoli sprezzantemente sfida chi riceve in custodia un animale inerme e condannato o addirittura già morto da squartare?

Gli indumenti del macellaio, peraltro, sembrano quasi una mera occasione, una scusa per ricordare a chi avesse qualche dubbio, come si compone e ricompone la piramide gerarchica affermata da questa società umana: in basso ci sono gli animali, destinati a diventare cadaveri sanguinanti. In alto gli umani, a loro volta gerarchicamente organizzati: il genere maschile ostenta la forza virile di chi occupa i vertici di tale piramide, ma all’interno di tale categoria esistono altre gerarchie, per cui il maschio lavoratore deve sorridere fiero, posando tra sangue e feci, simulando di essere anche contento della sua sulbalternità e della cruda violenza che il livello sociale e culturale e il modello di consumo corrente gli hanno riservato. Ogni immagine di questo stupefacente catalogo, che a noi sembra un incrocio tra un fotoromanzo e una rivista pornografica, ci ricorda che questa violenza costitutiva della nostra economia è agìta dai maschi, o quantomeno a partire da valori patriarcali di prevaricazione, di forza bruta, di dominio. Una foto dopo l’altra, dalla normalità della macellazione, si arriva all’orgoglio del macellaio.

catalogo indumenti da lavoro: il macellaio


Un macellaio posa fieramente reggendo la "testa" squartata e spellata ma sempre riconoscibile, di quella che doveva essere una maestosa mucca. La tiene in mano reggendola dai buchi di quelli che un tempo dovevano essere le orbite dei suoi occhi, occhi che devono aver visto l’allevamento intensivo, che devono aver visto il macello, che hanno sicuramente visto l’uomo infliggere sofferenza e morte a se stessa e alle proprie consimili.

L’immagine riecheggia l’iconografia venatoria: il cacciatore con il trofeo. E’ al “cacciatore” che è rivolta questa apologia della violenza, è lui che dovrà comperare l’abito da “lavoro”. Ma è a tutti che parla, in fondo.

La foto suscita in noi sentimenti di disgusto e allo stesso tempo ci chiediamo cosa devono pensare i carnivori che la guardano. Pensano forse che vada tutto bene? Che sia in fondo per una buona causa che si produce tanta violenza? O si scandalizzano?

Certo scandalizzarsi per la foto sarebbe ipocrita perché a essere disgustosa non è la foto in sé ma la cultura – legalissima, consuetudinaria, quasi banale - del consumo umano di animali.

E' una cultura crudele che, noi pensiamo, deve assolutamente venire superata.

Vorremmo che nessuno dovesse più posare per foto del genere, facendo anche la faccia "orgogliosa". Troviamo umiliante anche la posa in sé di quel personaggio.

Ecco. L’umiliazione. Quante volte ci siamo sentiti dire che, certo, l’esagerazione dei moderni allevamenti intensivi è deprecabile, ma una volta c’erano popolazioni che mangiavano gli animali rispettosamente? Pellirossa che uccidevano pochi bisonti e non buttavano via nulla, tribù che chiedevano scusa alle prede dopo averle ammazzate, culture primeve che condivano la carne con lunghe e misericordiose preghiere per lo spirito dell’animale. Abbiamo sempre trovato ipocrite queste osservazioni, e non solo perché chi le fa di solito non è né un pellirossa né un aborigeno australiano, ma soprattutto perché sentiamo la necessità di metterci, per quanto possibile, nei panni della vittima, non dell’uomo occidentale con i suoi (pur comprensibili) sensi di colpa. Ed è evidente che alla vittima non interessa nulla delle scuse: se mi mangi, puoi farlo con delicatezza, con religiosità, con “rispetto”[1], ma in sostanza mi mangi. Quando sono morto, poi, non ci sono più, e ai tuoi sensi di colpa, alle tue preghiere o alla tua gratitudine non posso proprio essere interessato.

Nonostante ciò, questa ridicolizzazione, questa umiliazione, appunto, di chi mostra con orgoglio una testa martoriata, di chi ostenta il proprio potere assoluto su quella che era una persona, ci turba di più. C’è come un supplemento di violenza in questa mancanza di pudore, forse anche di ipocrisia; c’è l’affermazione di una volontà, di un ruolo attivo nel massacro, di un protagonismo diverso da quello del consumatore inconsapevole, superficiale o insensibile. E c’è la volontà di affermare la legittimità della violenza, la sua normalità, come a inchiodare i consumatori, a chiedere loro di schierarsi: paradossalmente, a chiedere loro di non chiudere gli occhi, scuotendoli in modo analogo a quanto intende fare la produzione di immagini e filmati animalisti, che cercano continuamente di mettere la realtà di fronte alla vista, di renderla innegabile, inaggirabile. Così, qui ci viene chiesto di prendere una posizione: se accettate la carne, accettate tutto ciò. Non fate, domani, le anime belle che si scandalizzano per il sangue; noi ve l’avevamo detto. “Se i mattatoi avessero le pareti di vetro, tutti sarebbero vegetariani”, spesso si sente dire fra animalisti. Francamente, non siamo mai stati molto convinti. Ad ogni modo, questo catalogo è una parete di vetro.






[1] La parola in sé, “rispetto”, è peraltro molto sospetta. Si veda, in particolare: Yves Bonnardel, Per un mondo senza rispetto, http://www.cahiers-antispecistes.org/spip.php?article346.