venerdì 25 gennaio 2013

Ombre cinesi



 

Quel che vedete è un pollo, uno dei tanti in gioco,vivo certo; trafitto da più dardi nel corso di una rinomata competizione invernale che si svolge a Jilin, in Cina, secondo una tradizione folkloristica sino-coreana.
Ancorati all’idea di una Cina immobile e burbanzosa, irretita nelle trame di una abiezione che troppi ormai gli hanno disegnato addosso come lettera scarlatta, vi sarete pur chiesti se in questo lembo d’Oriente qualcosa eppur si muove, anche per le bestie. A giudicare da ciò che qui si mostra non sembrerebbe proprio.
C’è da dire che una certa acrimonia sembra inevitabile nei rapporti fra gli uomini, come già il caro Hegel aveva argutamente mostrato servendosi delle figure del servo e del padrone: si tratterebbe di un prezzo che si paga per confrontarsi con la diversità, soprattutto quando questa si avvicina minacciosa. In genere basta un passo di troppo e si è già in un altro paese; ovviamente caotico, sporco, incivile, degenerato e pieno di loschi tipi. Eh già, l’erba del vicino…
Sopportare gli altri, e le loro visioni del mondo, non è certo una sciocchezza.
Millenni di agape cristiana hanno moltiplicato i pugnali; se girando l’angolo, come pare, ancora ci si scanna per l’idea di un Dio, infinitamente buono e giusto, che dileguatosi nella sua trascendenza nemmeno si sa più che forma abbia. E questo solo per non tacere delle cose sublimi.
Accondiscendere è moralmente riprovevole, ipocrita, vile e inumano. È la maniera con la quale certi uomini hanno il privilegio di guardare il mondo, come dallo spioncino di una porta. Se non interessa a noi direttamente, non c’è neppure ragione per darsi troppo da fare, specie se non ce ne viene niente in cambio. Se ancora, in taluni casi, la semplice indifferenza può esprimere un atto di protesta, l’epochè di fronte a ogni scelta morale verso atteggiamenti che esigerebbero risposte inaccettabili, l’accondiscendenza è la passiva, consapevole e indulgente accettazione del mondo come dato: è ciò che succede a quanti osservano inorriditi senza nulla tentare, scusandosi col dire che così va il mondo, anche se non vi pare.
Come spettatori che dal ciglio di una strada contano i feriti di un incidente, magari visibilmente preoccupati, roranti e persino roganti, diciamo sì a un mondo che tuttavia ci ripugna.
Più complicata è invece la questione sulla tolleranza, passando per ora sotto silenzio i suoi tanti paradossi: nonostante se ne parli, ormai con insistenza , dal 1685 – con la celeberrima Letter Concerning Tolleration di John Locke – essa non implica quasi mai un riconoscimento dell’altro proprio in ragione della sua diversità. Questa sembra la causa per cui un solo vegano è simpatico e persino trendy, ma una comunità di essi rappresenta un’autentica iattura.  Più che un modo tollerante è un modus tollens.
A dirla tutta la faccenda non sarebbe di poco conto.
Qui si mangiano le mucche e i maiali e non pare, mi scuso per gli omissis, che ai più tutto ciò suoni bizzarro o rivoltante. Altrove accade lo stesso per cani, gatti e qualche altra esotica creatura. Ma noi, ovviamente, che le idee le abbiamo chiare dai tempi di quel Francesco, nemmeno a pensarci: cinesi bastardi, spazzatura, bruciassero pure vivi. Anche questa purtroppo sembra una conseguenza inevitabile di certo pluralismo.
La differenza configura in questo caso una relazione smaccatamente asimmetrica. Si possono citare le parole di Gandhi, fastigio e vanto della bioetica animale contemporanea:
La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali.
Va da sé che anche questa è una di quelle corbellerie pronte a sventolarsi a mo’ di gonfalone nei numerosi scontri fra opposte contrade, come se noi fossimo davvero in grado di spiegare il significato dei termini coinvolti e persino di imporli proditoriamente in un dialogo fra culture diverse. Saremmo, forse, come diceva l’indimenticabile Feuerbach, anche quello che mangiamo?
“Noi, in nome di principi fondati su nulla – salvo che sulla nostra storia e sulla nostra pelle – e che possiamo condividere tra di noi, ci stiamo arrogando il diritto di governare l’intera vita del pianeta e di ridurla ad unum, con le buone o con le cattive e servendoci della buona ragione, ma anche della scusa che altri popoli, talvolta, sono feroci e barbari. Noi invece no. Noi, con la desertificazione di queste intere regioni della terra, con la distruzione di ogni loro condizione di vita (per cui non hanno scelta e se vogliono sopravvivere devono vivere come noi, assimilarsi al nostro modello), non siamo barbarici. Siamo la civiltà.[1]
L’etica non è un fucile caricato con una sola pallottola e non esiste un unico obiettivo verso il quale le società tutte dovrebbero tendere: non c’è promozione dei diritti animali senza una consapevole riflessione sulla condizione umana; di più, non esisterebbe una questione animale se non ci fosse l’uomo a sentirne l’esigenza. Certo specismo alla rovescia nuoce agli animali più che agli uomini.
Non siamo certi, per servirsi di una litote, nemmeno che esistano i diritti stabiliti per natura, quelli che dovrebbero spettare a ogni individuo per il semplice fatto di esistere. Sic et sempliciter. A pensarci un po’ su, solo qualche decennio fa la faccenda sembrava piuttosto scontata; e le idee, che allora parvero di certo e flaviscente splendore, hanno prodotto ruine dalle quali troppo sbrigativamente abbiamo estratto le nostre polverose teste.
Che sia forse sorto d’improvviso l’uomo universale, mirabolante costruzione occidentale suggerita dalle intelligenze più illuminate?  Non sappiamo se da qualche parte, per esempio in Niger, qualcuno discuta  d’integrità psicofisica degli indigeni, che – si dice- pensano, sentono, hanno percezioni ed emozioni come le nostre, stessa scienza e, se lo vogliamo, anche la medesima religione. Chissà come mai non dovrebbero voler desiderare le stesse cose e soddisfare anche i medesimi bisogni.
Non è davvero per questa ragione che esportiamo democrazia, diritti e valori?
Questa teoria del soldatino di stagno può anche essere affascinante, suggerita per giunta da una vago afflato irenico che ignora totalmente la nostra meravigliosa storia. Saremo pure imperfetti noi, ma quei maledetti cinesi…
C’è da dire che in questo sconfinato paese, molto ancora dev’essere fatto: pensate che non esiste neppure una legge nazionale sulla tutela e il benessere degli animali; solo qualche scapigliato regolamento ispirato dall’urgenza delle circostanze e dal disagio di pochi, preoccupati che i molti se ne accorgano.Ricordate Pechino 2008? Ai ristoranti venne vietato di servire carne di cane e di gatto per tutta la durata dei giochi.
Gli animali sono numeri. Accade qui, nell’Occidentecivilizzato, e non si comprende perché altrove le cose dovrebbero andare diversamente. O davvero qualcuno può credere che fra quei polli appesi a testa in giù in attesa del mortale schiocco e i simpatici coniglietti negli stabulari europei o americani, ci sia poi tutta questa differenza?
Ci sarebbe da aggiungere che la povertà, schermo sociale che a molti piace credere possa essere indifferente alle vicissitudini morali di un popolo, è un problema che angoscia l’esistenza di oltre un miliardo di persone solo nella Cina continentale.
Difficile, ancora, porsi con serietà il problema dell’avorio in molti paesi africani dove questa pratica continua senza sosta; soprattutto se, rivendendolo, gli improvvisati bracconieri ottengono immantinente quel che altrimenti non metterebbero insieme in una vita intera. Queste cose, però, continuano a farci ribrezzo quando le guardiamo dalle nostre gigantesche televisioni al plasma.
Ora, scagliare delle frecce contro dei polii vivi, annodati a una corda e fissati a lastre di ghiaccio, non è propriamente uno spettacolo degno del Festival della Neve di Jilin; né di alcun luogo sul quale dovrebbe mai affacciarsi presenza umana.
Capita, però, che non tutto – nemmeno da quelle parti – accada con indifferenza. Numerosi media, radio, social network e tv hanno divulgato le raccapriccianti immagini e condannato duramente la sporca esibizione, che in breve ha fatto il giro del paese. 
Lisa e Xin di Animals Asia hanno immediatamente guidato un gigantesco movimento di protesta sul portale Sina Weibo, il più grande della Cina, inducendo il governo locale a sospendere la vile esecuzione. Il Dipartimento del Turismo, consapevole della pubblica protesta, ha anche abolito simili forme d’intrattenimento per le prossime edizioni dei giochi invernali.
Non si tratta tuttavia di un evento isolato. Soprattutto quando le modalità di sfruttamento esprimono crudeli attività economiche che non fanno parte dello spirito di questo popolo, molti sono i freni che la società civile mette in atto per bloccarne l’affermazione. Basti pensare al divieto verso gli allevamenti di Foie Gras; al bando nei confronti di tutte le performance che provocano abusi agli animali nei circhi e negli zoo safari; alla corrida e al rodeo; alla caccia sportiva (trophy hunting) e soprattutto alla serrata contestazione contro le fattorie della bile.
La Cina,e sarebbe bene rendersene presto conto, non è poi così lontana da noi, in qualsiasi maniera venga dipinta.

Di Antonella Palla per orsidellaluna.org

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