Quel che vedete è un pollo, uno dei tanti in gioco,vivo certo; trafitto da più dardi nel corso di una rinomata competizione invernale che si svolge a Jilin, in Cina, secondo una tradizione folkloristica sino-coreana.
Ancorati all’idea di una Cina immobile e burbanzosa, irretita nelle
trame di una abiezione che troppi ormai gli hanno disegnato addosso come
lettera scarlatta, vi sarete pur chiesti se in questo lembo d’Oriente
qualcosa eppur si muove, anche per le bestie. A giudicare da ciò che qui si mostra non sembrerebbe proprio.
C’è da dire che una certa acrimonia sembra inevitabile nei rapporti fra gli uomini, come già il caro Hegel aveva argutamente mostrato servendosi delle figure del servo e del padrone:
si tratterebbe di un prezzo che si paga per confrontarsi con la
diversità, soprattutto quando questa si avvicina minacciosa. In genere
basta un passo di troppo e si è già in un altro paese; ovviamente
caotico, sporco, incivile, degenerato e pieno di loschi tipi. Eh già,
l’erba del vicino…
Sopportare gli altri, e le loro visioni del mondo, non è certo una sciocchezza.
Millenni di agape cristiana hanno moltiplicato i pugnali; se
girando l’angolo, come pare, ancora ci si scanna per l’idea di un Dio,
infinitamente buono e giusto, che dileguatosi nella sua trascendenza
nemmeno si sa più che forma abbia. E questo solo per non tacere delle
cose sublimi.
Accondiscendere è moralmente riprovevole, ipocrita, vile e inumano.
È la maniera con la quale certi uomini hanno il privilegio di guardare
il mondo, come dallo spioncino di una porta. Se non interessa a noi
direttamente, non c’è neppure ragione per darsi troppo da fare, specie
se non ce ne viene niente in cambio. Se ancora, in taluni casi, la
semplice indifferenza può esprimere un atto di protesta, l’epochè di fronte a ogni scelta morale verso atteggiamenti che esigerebbero risposte inaccettabili, l’accondiscendenza
è la passiva, consapevole e indulgente accettazione del mondo come
dato: è ciò che succede a quanti osservano inorriditi senza nulla
tentare, scusandosi col dire che così va il mondo, anche se non vi pare.
Come spettatori che dal ciglio
di una strada contano i feriti di un incidente, magari visibilmente
preoccupati, roranti e persino roganti, diciamo sì a un mondo che
tuttavia ci ripugna.
Più complicata è invece la questione sulla tolleranza,
passando per ora sotto silenzio i suoi tanti paradossi: nonostante se
ne parli, ormai con insistenza , dal 1685 – con la celeberrima Letter Concerning Tolleration di John Locke – essa non implica quasi mai un riconoscimento dell’altro proprio in ragione della sua diversità. Questa
sembra la causa per cui un solo vegano è simpatico e persino trendy, ma
una comunità di essi rappresenta un’autentica iattura. Più che un modo
tollerante è un modus tollens.
A dirla tutta la faccenda non sarebbe di poco conto.
Qui si mangiano le mucche e i maiali e non pare, mi scuso per gli omissis,
che ai più tutto ciò suoni bizzarro o rivoltante. Altrove accade lo
stesso per cani, gatti e qualche altra esotica creatura. Ma noi,
ovviamente, che le idee le abbiamo chiare dai tempi di quel Francesco,
nemmeno a pensarci: cinesi bastardi, spazzatura, bruciassero pure vivi.
Anche questa purtroppo sembra una conseguenza inevitabile di certo
pluralismo.
La differenza configura in questo caso una relazione smaccatamente
asimmetrica. Si possono citare le parole di Gandhi, fastigio e vanto
della bioetica animale contemporanea:
La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali.
Va
da sé che anche questa è una di quelle corbellerie pronte a sventolarsi
a mo’ di gonfalone nei numerosi scontri fra opposte contrade, come se
noi fossimo davvero in grado di spiegare il significato dei termini
coinvolti e persino di imporli proditoriamente in un dialogo fra culture
diverse. Saremmo, forse, come diceva l’indimenticabile Feuerbach, anche
quello che mangiamo?
“Noi, in nome di principi fondati su nulla – salvo che sulla
nostra storia e sulla nostra pelle – e che possiamo condividere tra di
noi, ci stiamo arrogando il diritto di governare l’intera vita del
pianeta e di ridurla ad unum,
con le buone o con le cattive e servendoci della buona ragione, ma
anche della scusa che altri popoli, talvolta, sono feroci e barbari. Noi
invece no. Noi, con la desertificazione di queste intere regioni della
terra, con la distruzione di ogni loro condizione di vita (per cui non
hanno scelta e se vogliono sopravvivere devono vivere come noi,
assimilarsi al nostro modello), non siamo barbarici. Siamo la civiltà.[1]
L’etica non è un fucile caricato con una sola pallottola
e non esiste un unico obiettivo verso il quale le società tutte
dovrebbero tendere: non c’è promozione dei diritti animali senza una
consapevole riflessione sulla condizione umana; di più, non esisterebbe
una questione animale se non ci fosse l’uomo a sentirne l’esigenza.
Certo specismo alla rovescia nuoce agli animali più che agli uomini.
Non
siamo certi, per servirsi di una litote, nemmeno che esistano i diritti
stabiliti per natura, quelli che dovrebbero spettare a ogni individuo
per il semplice fatto di esistere. Sic et sempliciter.
A pensarci un po’ su, solo qualche decennio fa la faccenda sembrava
piuttosto scontata; e le idee, che allora parvero di certo e flaviscente
splendore, hanno prodotto ruine dalle quali troppo sbrigativamente
abbiamo estratto le nostre polverose teste.
Che sia forse sorto d’improvviso l’uomo universale, mirabolante
costruzione occidentale suggerita dalle intelligenze più illuminate?
Non sappiamo se da qualche parte, per esempio in Niger, qualcuno
discuta d’integrità psicofisica degli indigeni, che – si dice- pensano, sentono, hanno percezioni ed emozioni come le nostre, stessa scienza e, se lo vogliamo, anche la medesima religione. Chissà come mai non dovrebbero voler desiderare le stesse cose e soddisfare anche i medesimi bisogni.
Non è davvero per questa ragione che esportiamo democrazia, diritti e valori?
Questa teoria del soldatino di stagno
può anche essere affascinante, suggerita per giunta da una vago afflato
irenico che ignora totalmente la nostra meravigliosa storia. Saremo pure imperfetti noi, ma quei maledetti cinesi…
C’è da dire che in questo sconfinato paese, molto ancora
dev’essere fatto: pensate che non esiste neppure una legge nazionale
sulla tutela e il benessere degli animali; solo qualche scapigliato
regolamento ispirato dall’urgenza delle circostanze e dal disagio di
pochi, preoccupati che i molti se ne accorgano.Ricordate Pechino 2008? Ai ristoranti venne vietato di servire carne di cane e di gatto per tutta la durata dei giochi.
Gli animali sono numeri. Accade qui, nell’Occidentecivilizzato,
e non si comprende perché altrove le cose dovrebbero andare
diversamente. O davvero qualcuno può credere che fra quei polli appesi a
testa in giù in attesa del mortale schiocco e i simpatici coniglietti
negli stabulari europei o americani, ci sia poi tutta questa differenza?
Ci
sarebbe da aggiungere che la povertà, schermo sociale che a molti piace
credere possa essere indifferente alle vicissitudini morali di un
popolo, è un problema che angoscia l’esistenza di oltre un miliardo di
persone solo nella Cina continentale.
Difficile, ancora, porsi con serietà il problema dell’avorio in molti
paesi africani dove questa pratica continua senza sosta; soprattutto
se, rivendendolo, gli improvvisati bracconieri ottengono immantinente
quel che altrimenti non metterebbero insieme in una vita intera. Queste
cose, però, continuano a farci ribrezzo quando le guardiamo dalle nostre
gigantesche televisioni al plasma.
Ora, scagliare delle frecce
contro dei polii vivi, annodati a una corda e fissati a lastre di
ghiaccio, non è propriamente uno spettacolo degno del Festival della
Neve di Jilin; né di alcun luogo sul quale dovrebbe mai affacciarsi presenza umana.
Capita,
però, che non tutto – nemmeno da quelle parti – accada con
indifferenza. Numerosi media, radio, social network e tv hanno divulgato
le raccapriccianti immagini e condannato duramente la sporca
esibizione, che in breve ha fatto il giro del paese.
Lisa e Xin di Animals Asia hanno immediatamente guidato un gigantesco movimento di protesta sul portale Sina Weibo,
il più grande della Cina, inducendo il governo locale a sospendere la
vile esecuzione. Il Dipartimento del Turismo, consapevole della pubblica
protesta, ha anche abolito simili forme d’intrattenimento per le
prossime edizioni dei giochi invernali.
Non si tratta tuttavia di un evento isolato. Soprattutto quando le
modalità di sfruttamento esprimono crudeli attività economiche che non
fanno parte dello spirito di questo popolo, molti sono i freni che la
società civile mette in atto per bloccarne l’affermazione. Basti pensare
al divieto verso gli allevamenti di Foie Gras; al bando nei confronti di tutte le performance che provocano abusi agli animali nei circhi e negli zoo safari; alla corrida e al rodeo; alla caccia sportiva (trophy hunting) e soprattutto alla serrata contestazione contro le fattorie della bile.
La Cina,e sarebbe bene rendersene presto conto, non è poi così lontana da noi, in qualsiasi maniera venga dipinta.
Di Antonella Palla per orsidellaluna.org
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