martedì 3 maggio 2011

UMANI TRA LUPO E CANE - di ROBERTO MARCHESINI

La domesticazione costituisce uno dei fondamenti della storia dell’umanità, sebbene ancor oggi venga troppo spesso rappresentata come un evento mitico realizzato in modo autarchico, secondo l’iconografia autocelebrativa di un uomo che si è fatto da sé lottando contro una natura ostile. In realtà questa lettura è scorretta, soprattutto se consideriamo che, sulla base delle ultime ricerche paleontologiche e di biologia molecolare, si è dovuto
retrodatare la domesticazione del cane oltre il fatidico limite dei cinquantamila
anni fa.
Pratiche di maternaggio
Nelle brume del Paleolitico l’uomo, ancora raccoglitore nomade, era già accompagnato
dal cane nelle sue migrazioni, e questo ben quarantamila anni prima della rivoluzione del Neolitico: un dato che ci fa comprendere come si debba parlare, più che di cattività, di
un processo di avvicinamento reciproco che ha trasformato la nostra specie, oltre ad aver estratto il cane dal complesso genotipo del lupo. Ominidi e lupi condividevano lo stesso ambiente, avevano la stessa collocazione ecologica, si assomigliavano nell’organizzazione
sociale: tutti questi requisiti (che hanno inevitabilmente facilitato gli incontri e le sovrapposizioni – e indubbiamente anche situazioni di scontro) lasciano pensare che prima della domesticazione ci sia stata una lunga convivenza.
Una frequentazione che, se da una parte ha avvicinato il lupo alla consuetudine umana, creando le premesse per la domesticazione, come ha riscontrato Raymond Coppinger, dall’altra ha modificato in profondità gli usi e i costumi dei nostri progenitori.
È questo forse l’aspetto più interessante messo in luce dalla zooantropologia, disciplina che studia i prestiti delle altre specie nella costruzione della dimensione antropologica. Non è infatti possibile pensare ai predicati che caratterizzano l’identità umana – dalla musica
alla danza, dalla moda alla tecnologia – come qualità autofondate. Già Democrito, del resto, sottolineò che l’uomo aveva imparato gran parte delle sue arti osservando gli animali e imitandone le prestazioni. Non a caso tutte le mitologie parlano di uomini adottati
da lupe, un fatto da cui possiamo ricavare che anche la licantropia – ovvero il meticciamento con il lupo – abbia svolto un ruolo non secondario in questa apertura dell’orizzonte umano. Di certo l’adozione di un cucciolo di lupo, un evento verificatosi più volte e in aree geografiche differenti, come già intuì Konrad Lorenz, ha significato un salto di qualità. Con l’ingresso fattivo del lupo nel gruppo umano i bambini imparano stili comportamentali non umani dando vita a un’ibridazione molto più profonda e articolata. Resta da capire perché sia avvenuta questa adozione. Ma studiando le prassi di allevamento ancora in voga presso alcune culture, per esempio quella Papua o Nunga, osserviamo pratiche come il maternaggio, l’allattamento al seno di cuccioli, o lo svezzamento attraverso il passaggio di cibo da bocca a bocca, che ci portano a leggere l’adozione come evento legato alle cure parentali.
Nel suo famoso saggio In the company of animals, James Serpell fa notare come in tutte le popolazioni umane siano presenti animali cosiddetti da compagnia e come il tratto che caratterizza questi rapporti sia proprio la tendenza ad accudire e a prendersi cura dei pets, al punto che l’etologo statunitense arriva a ipotizzare una sorta di parassitismo parentela. Gli animali domestici avrebbero pertanto utilizzato la stessa strategia del cuculo? Il paragone non sembra reggere perché mentre il cuculo ha affinato una sua strategia riproduttiva, specifica sotto il profilo dell’adattamento, nel caso degli animali adottati l’uomo pare aver tentato di domesticare qualunque tipo di animale.
Così, se è vero che non tutti gli animali sono stati domesticati, il limite va ascritto – come ha rilevato il fisiologo Jared Diamond – a caratteri non direttamente legati con l’adozione, come la docilità o la riproduzione controllata.
Un cucciolo bisognoso di cure
Già Konrad Lorenz aveva richiamato l’attenzione verso una serie di caratteri pedomorfici (tipici cioè delle forme giovanili) comuni in tutti i mammiferi, come la sfericità della testa, gli occhi grandi e lucidi, il muso schiacciato, le zampette corte, che formano una sorta di
linguaggio universale dei cuccioli. Queste forme giovanili, suscitando comportamenti parentali, compongono una sorta di esperanto «et-epimeletico», termine etologico che in pratica significa «capace di muovere un comportamento di cura». Ma tale evocazione sarà più forte se dall’altra parte c’è qualcuno fortemente sensibile a tale richiamo, ossia
con una forte motivazione epimeletica (dal greco epimeléomai , «prendersi cura»). L’etologia insomma sembra dare ragione a Martin Heidegger quando afferma
che «l’uomo è figlio della cura», sottolineando appunto la sensibilità della specie umana verso il richiamo et-epimeletico. (E il fatto che le forme giovanili abbiano un forte appeal per gli esseri umani trova dimostrazioni continue nella vita quotidiana, dal fascino delle automobili dai contorni rotondeggianti, come la Cinquecento e il Maggiolone, al disegno pedomorfico di Micky Mouse e Donald Duck). Questa tendenza epimeletica dell’essere umano andrebbe ascritta al forte bisogno di cure parentali del cucciolo di Homo sapiens il quale, a differenza dei cugini scimpanzé, bonobo, gorilla e orango, alla nascita presenta una immaturità di sviluppo – ossa craniche non saldate, volume encefalico di un quinto rispetto all’adulto – che lo rende inetto e quindi bisognoso di cure parentali.
Il neonato umano non solo non è in grado di aggrapparsi come il cucciolo delle altre specie antropomorfe ma non è capace nemmeno di tenere su la testa. Secondo il dettato darwiniano la conclusione è presto detta: senza una controlaterale vocazione epimeletica
la nostra specie si sarebbe estinta. Ma come un gatto, a causa del suo acceso istinto predatorio, trova irresistibili oggetti in teoria per lui poco interessanti come le palline o le freccette del mouse, così la forte motivazione epimeletica ci rende vulnerabili anche verso
le forme giovanili di altre specie. Insomma, di fronte a un cucciolo siamo presi dalla tenerezza, ossia dalla voglia di adottarlo, accudirlo e dargli da mangiare, al punto che anche i bambini, davanti a un animale, per prima cosa gli porgono del cibo. È dunque verosimile che proprio la tenerezza, e non un calcolo di utilizzo, abbia rappresentato il grande interprete della domesticazione, anche perché sarebbe molto difficile spiegare fenomeni come il maternaggio e lo svezzamento buccale al di fuori di un comportamento parentale.
La globalizzazione del cavallo
Si tratta in definitiva di ribaltare il luogo comune che vede il maschio umano cacciatore indomito protagonista della cattura e dell’asservimento degli animali.
In realtà furono le donne a dar avvio alla domesticazione, aprendo la strada a un processo di ibridazione con il non umano che ci ha trasformato alla radice, fino ad arrivare al cyborg postmoderno raffigurato da Donna Haraway come condizione esistenziale della contemporaneità. La domesticazione sarebbe stata perciò un effetto collaterale del nostro virtuosismo nell’ambito della cura, una tendenza che di fatto ci ha aperto alla contaminazione del non umano.
Se Lévi-Strauss ebbe a sostenere che l’animale è prima di tutto «buono da pensare», altri studiosi come Diamond e Marvin Harris sono arrivati a riscrivere la storia dell’umanità attraverso le diverse partnerships con gli animali domestici – dove, per esempio, la domesticazione del bovino ha reso possibile lo sviluppo della meccanica e quella del
cavallo è stata la prima forma di globalizzazione. La cultura rurale, pur nelle diverse trasformazioni che l’hanno caratterizzata, vedeva una profonda promiscuità tra l’uomo e le altre specie, al punto che molti fisiologi hanno riscontrato l’importanza della cosiddetta «immunità incrociata», vera e propria vaccinazione ante litteram che ha permesso all’uomo di mettersi al riparo da particolari malattie infettive.
Elargizioni e maltrattamenti
Con la rivoluzione urbana del Novecento l’uomo ha divorziato dagli animali domestici, molti dei quali sono finiti negli allevamenti intensivi, lager che hanno tolto loro la luce del sole, l’aria aperta, la possibilità di movimento e hanno costellato la loro esistenza di terribili vessazioni. Ad accompagnarci nelle metropoli convulse sono rimasti solo il cane e il gatto, privilegiati solo in apparenza, perché di fatto relegati a una vita che ha ben poco delle soddisfazioni richieste dal loro etogramma: sebbene un radicato luogo comune veda nell’antropomorfizzazione dei pets una grossa elargizione per loro e si usino termini
come viziare o coccolare, non è esagerato affermare che in molti casi si tratta di veri e propri maltrattamenti.
Del resto secondo la tradizione disneyana, che nel bene e nel male ha formato tutte le generazioni a partire dagli anni ’50, gli animali sono solo maschere sotto cui agisce una personalità umana.
Questo non ci permette di capire che in fatto di percezione del mondo, di modalità comunicativa, di interesse e di rituali comportamentali ogni specie ha i suoi tratti distintivi e merita di essere rispettata come tale. E tuttavia è vero che gli animali domestici rappresentano l’ultimo contatto con una realtà non umana che abbiamo allontanato ma di cui abbiamo bisogno proprio per costruire le qualità più autentiche della nostra dimensione umana.






































ARTICOLO TRATTO DA "IL MANIFESTO - 24 APRILE 2011"

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